Lo psichiatra Hervey Cleckley nel 1941 fornì la prima descrizione clinica di tali pazienti descrivendoli come persone psicopatiche con comportamenti così caotici e così scarsamente in sintonia con le richieste della realtà e della società che è possibile inferire una psicosi al di là della facciata, anche se gli psicopatici sembrano capaci di rapportarsi superficialmente agli altri, sono del tutto irresponsabili in tutte le loro relazioni senza che vi sia una capacità empatica.
Il termine psicopatico in seguito cadde in disuso e fu sostituito col termine sociopatico, spostando quindi il focus dell’osservazione del conflitto, in cui si trova colui che è affetto da tale disturbo, dal gioco delle sue istanze psichiche alle dinamiche tra lui e il gruppo sociale di appartenenza.
Per arrivare al 1968 con la pubblicazione del Manuale statistico e diagnostico dell’American Psychiatric Association (DSM) che modifica significativamente la visione di Cleckley e conia il termine Disturbo Antisociale di Personalità, che vuole inquadrare l’insieme delle condotte pervasive di violazione dei diritti degli altri attraverso un modello multidisciplinare di tipo bio-psico-sociale.
Le persone con un disturbo antisociale mettono in atto comportamenti caotici e scarsamente in sintonia con le richieste della società; sono frequentemente disonesti e manipolativi per trarre profitto e gratificazioni personali. Persone che prendono decisioni seguendo solo l’impulso del momento, senza pensare alle possibili conseguenze che potrebbero avere per sé e per gli altri e dinanzi a conseguenze dannose hanno la tendenza a minimizzare o a mostrare indifferenza non provando senso di colpa.
Le caratteristiche principali del disturbo sono sintetizzabili in impulsività e aggressività, che possono essere innescate dal minimo conflitto e dalla minima frustrazione, senza che il pensiero possa e riesca ad esprimersi sull’agito.
Le persone antisociali hanno una visione del mondo personale e non interpersonale, non riescono a tenere in considerazione il punto di vista degli altri. E’ come se alzassero un muro dagli altri, che non permette loro di raggiungerli e mettersi nei panni altrui portandoli ad avere relazioni interpersonali transitorie, superficiali con un atteggiamento di fondo fatto di indifferenza e distacco, non curandosi di ciò che sta avvenendo e di ciò che gli altri pensano di loro.
Il comportamento sessuale di queste persone è spesso irresponsabile e utilitaristico senza che vi sia una salvaguardia della propria salute personale.
Inoltre chi soffre di una disturbo antisociale crede di essere speciale e di meritare dei favoritismi e facili gratificazioni. In apparenza può sembrare molto sicuro di sé, ma tale fiducia in sé non arriva da una valutazione positiva di sé, ma dalla diffidenza verso gli altri, quasi una sorta di protezione da un mondo percepito come danneggiante, umiliante e frustrante.
Le persone con un disturbo antisociale di personalità considerano i propri problemi come il risultato dovuto all’incapacità delle altre persone di accettarli o che vogliono limitare la loro libertà. Persone che spesso vivono un malessere personale, ma che non hanno la consapevolezza di aver un disturbo e di conseguenza non reputano necessario un intervento né farmacologico, né psicoterapeutico.
Vi è la possibilità che abbiano sperimentato e siano state consapevoli di un vissuto di frustrazione, ansia e angoscia che fa pensare vi possa essere la presenza anche solo minima di un possibile senso di dovere con norme realistiche e condivisibili.
Un possibile lavoro terapeutico focalizzato sul “qui ed ora” con l’incoraggiamento a pensare, ogni volta che il paziente prova un impulso, ai possibili effetti dei suoi comportamenti: interporre il pensiero tra impulso e azione, per riuscire ad avere un contatto con le proprie emozioni e i propri stati interiori.
Un processo terapeutico lento in cui la persona antisociale vive l’esperienza come una minaccia al proprio Sé grandioso e i terapeuti devono essere consapevoli e pronti a tali resistenze, comprendendo che la coesione interna del paziente dipende da un concetto di Sé grandioso (Reid, 1985) e il terapeuta per anche lunghi periodi può sentirsi paralizzato da minacce manifeste o nascoste da parte del paziente (Kernberg, 1984).
Tuttavia, nonostante le difficoltà, i pazienti con un disturbo antisociale possono trarre qualche giovamento da un trattamento psicoterapeutico di media-lunga durata, che possa aiutarli a regolare i propri impulsi, riscoprire le proprie emozioni anche quelle positive e abbassare quel muro, che non permette loro di avvicinarsi all’Altro e di sviluppare empatia.